Marche, radici nel futuro

DI LUCA GUAZZATI

La lettura della terra ci aiuta a individuare le origini profonde del nostro divenire.
Studiare l’insediamento della popolazione nelle diversità morfologiche che ne hanno indirizzato usi e costumi, è utile per progettare qualsiasi crescita.
Conoscere la storia dei marchigiani, dei loro talenti e del loro lavoro è alla base di ogni programmazione economica per migliorarne e potenziarne il futuro.
Tutto questo insieme serve per tirar fuori le nuove radici dello sviluppo. Ed è questo l’intento prioritario del presente progetto nelle linee programmatiche del governo regionale quando la centralità dei beni culturali assume compiti di salvaguardia e di valorizzazione del territorio, dei suoi valori storici, artistici, architettonici che sempre si tramutano in ricchezza allorquando l’attrattività diventa valore aggiunto, “prodotto” unico, peculiare ed irripetibile ed elemento di sviluppo essa stessa.



LE VALLI UBERTOSE DI UNA TERRA “DI PASSAGGIO”

E’ stata recentemente rivisitata la convenzionale connotazione della regione come “terra di passaggio”. E’ infatti antica opinione comune che tale indicazione sia dovuta al fatto che, in tempi recenti, siano state realizzate alcune opere pubbliche e strutture viarie tese al miglioramento delle comunicazione regionale, quali la realizzazione prima della ferrovia lungo la costa (1861), poi verso la capitale Roma e poi dell’arteria autostradale A14 (1960-1964). In quest’ultimo caso, alla direzione Nord Sud dei collegamenti, non è stato affiancato, come per la ferrovia, un altro percorso funzionale, all’altezza dei tempi, perpendicolare, di attraversamento appenninico verso Roma. E’ infatti ancora in corso il potenziamento della bretella oltre Fabriano, come pure quello della Fano Grosseto, dove sono presenti cantieri da anni, e infine il tratto a sud di Teramo, già comunque fuori dalle Marche.
Geograficamente finisce al promontorio di Gabicce la Valle Padana, la più vasta pianura italiana.
In realtà, sebbene sia innegabile la conformazione straordinaria per una sola regione, della suddivisione nelle tre fasce Montagna, Collina e Costa, tutte presenti con una scala degradante verso il mare da circa mille metri di altezza appenninica media, ciò ha consentito un’evoluzione diversificata dell’economia solo in periodo molto recente. Infatti lo spostamento interno dei nuclei di popolazione ha sempre influito molto poco…
Proviamo a trovare una spiegazione economica endemica dei fattori di sviluppo marchigiani, al di là del fenomeno recente, diremmo contemporaneo, dello spopolamento dei borghi rurali comunque moderato nelle Marche, dove sempre si è privilegiato il concetto del “lavoro sotto casa”, a costo di costruire la fabbrica o il capannone nelle immediate vicinanze del paese, per onorare il motto “casa e bottega” anche in epoca industriale.
Se accantoniamo ai nostri fini l’alta valle del Marecchia e quella del Conca (sempre più romagnole anche per la recente defezione di alcuni Comuni passati alla Provincia di Rimini) contiamo invece: la Valle del Foglia, la Valle del Metauro, la Valle del Cesano, la Valle del Misa, la Valle dell’Esino (Vallesina), la Valle del Musone-Aspio, la Valle del Potenza, la Valle del Chienti, la Valle del Tenna, la Valle dell’Aso (Valdaso), la Valle del Tesino-Tronto.
Di sicuro a farla da padrone, nelle Marche, è la fascia collinare che ne caratterizza il paesaggio: se facessimo un sondaggio domandando al marchigiano medio come si definirebbe rispetto alla sua abitudine di vita e attività lavorativa, non troveremmo certo la maggioranza dedita alla pastorizia o alla pesca. Ma neanche, ai tempi d’oggi, astaticheattività“metropolitane”.
Dunque chi è il marchigiano medio e di che cosa si occupa?



LA FORTE ANTROPRIZZAZIONE

La fascia collinare marchigiana ha una peculiarità unica: è divisa trasversalmente nelle vallate sopra nominate. Attraversate da uno o più fiumi che le rendono fertili, dolci, armoniose e suggestive, per loro caratteristica invitano alla coltivazione, ai concetti naturali della vita sana e rurale, ai mestieri della terra, alla “serenità-ripetitività” (concept che ha regolato la vita della vita di campagna per secoli: la consapevolezza che le stagioni si ripetono, hanno i loro ritmi, ma sono sempre quelle). Per secoli questo territorio - fra i più antropizzati d’Europa e del mondo – ha visto generazioni dedite all’agricoltura e alle sue tradizioni.
I mezzadri, con la nobiltà terriera concedente, i braccianti, i casanolanti, sono stati la tipica figura marchigiana, la più inerente alla realtà locale.
Attenzione: il mezzadro, non il contadino. Che è di più: perché si sente anch’egli proprietario, quindi imprenditore, quindi fortemente responsabilizzato dell’andamento della sua terra-impresa-famiglia.
Due esempi che spiegano molte cose: nel tempo libero il mezzadro fa piccoli lavoretti migliorativi per il campo, per la casa, per gli attrezzi. Perché li considera più suoi, che a metà con il proprietario. Inoltre, la politica, le rivoluzioni, il sindacato, il socialismo qui nelle Marche hanno sempre trovato poca fortuna, hanno sempre fatto poca presa nell’opinione pubblica. Perché se nella stalla la metà dei buoi è del mezzadro, è però tutta la stalla che dà da mangiare alla famiglia del mezzadro.
Tale mentalità viene ad essere mirabilmente illustrata dalla tipologia della casa dove il mezzadro abita. Una casa inserita nel fondo che gli è stato affidato, costruzione essenziale, prevalentemente in mattoni con tetto a due spioventi, sostanzialmente divisa in tre parti: la stalla/ricovero a piano terra, l’abitazione e la dispensa/magazzino (o bigattiera) al primo piano. Con scala solitamente esterna ma riparata per lasciare più spazio interno. Il fulcro abitativo è indubbiamente la cucina con camino. Fuori, l’aia, con pollaio e porcile, pagliaio e cuccia per il cane.
Il mezzadro è il responsabile assoluto dei rapporti con il padrone, coltiva e fa i conti, valuta gli investimenti.
La “vergara” sovrintende a tutti gli oneri familiari, a cibo e vestiario, ai figli e agli animali domestici, “dosando” le forze da mettere in campo. Si occupa anche della raccolta di ghiande, olive, fascine, ortofrutta. L’arte di arrangiarsi, la piccola geniale manualità e una certa furbizia nel costruire arnesi, utensili, telai vengono trasmessi ed ereditati, di generazione in generazione, come talento manifatturiero ante litteram. E mentre nel tempo la meccanizzazione agricola che pure fa passi da gigante, non serve più di tanto ad appezzamenti di terreno non certo giganteschi, invece proprio questo tipo di talento artigiano prende campo, si specializza, si affina.
Con i primi fenomeni di urbanizzazione sono migliaia i figli dei contadini mezzadri che – benestanti – preferiscono andare dentro le mura cittadine, lavorando però come artigiani, al servizio di microproduzioni locali, sempre legate inizialmente al mondo rurale e alla tipicità.
I più bravi, scaltri e ardimentosi, iniziano a produrre in serie, ad avviare diverse attività industriali. La bottega sotto casa diventa opificio. I mestieri cedono il posto a una piccola industria vivace e diffusa, variegata e flessibile. Dalla filatura al tessile, dal legno al mobile, la carta, la calzatura, la fisarmonica. Poi l’elettronica, l’elettrodomestico…
Abbiamo detto benestanti: il mezzadro e la famiglia del mezzadro, vivendo del prodotto della terra, avendo il fondo come patrimonio in gestione e le braccia come risorsa sicura, non soffrono la fame, non sono poveri. E non è mai stata la povertà una caratteristica dei marchigiani, che comunque hanno anche la buona volontà e la capacità di adeguarsi in lavori e impieghi differenti, come lato buono del loro carattere…
Un discorso a parte per il marchigiano merita la pesca: il mestiere del mare è considerato più come una specializzazione che non come una fonte primaria dell’economia locale in grado per esempio di “antropizzare” il paesaggio. I villaggi di pescatori sono pochi, lungo la costa, rispetto alla lunghezza. Così, non è affatto fondamentale come ci si potrebbe aspettare, il rapporto delle maggiori città con il mare, a cominciare proprio da Ancona.
Il capoluogo sembra addirittura che dal mare si sia quasi dovuto “difendere” piuttosto che sfruttarne i benefici assoluti.
Una spiegazione è che il mare “abbraccia” le Marche che vi propendono attraverso il suo gomito (Ankon), non le penetra caratterizzandone la vita, le tradizioni, la società. Come a Napoli, Genova, Taranto, Venezia… o Trieste e Ravenna, che sul mare è stata rilanciata, trovando una nuova ragion d’essere.
No, di sicuro la ruralità, più che un’economia marittima, appartiene alle Marche.



LE RADICI

Storicamente, invece, la questione “terra di passaggio” ha radici diverse e deriva da accadimenti storici molto più lontani nel tempo.
Sono gli etruschi ad attraversare per la prima volta l’Appennino in cerca di sbocchi in Adriatico. Ma non per insediarvisi, bensì per arrivare a conoscere le terre di là dal mare, Albania, Macedonia, soprattutto la Grecia con la sua cultura ellenizzante ed i proficui traffici e rapporti commerciali. Quelle terre in cui nell’antichità, si favoleggiava di tesori, del clima e di una fertilità “premiati dagli dei”.Ecco perchè, presso l’enclave villanoviana di Fermo, e poi a San Severino, Matelica, Sirolo e Cupra Marittima, con sporadiche testimonianze a Pesaro e Fabriano,ci sono ritrovamenti etruschi importanti che ne testimoniano “il passaggio”.
Ma i Piceni, presenti dal Foglia a Pescara, in quanto già popolazione stanziale, non consentirono loro alcuna integrazione né ospitalità. Come pure non aprirono mai ad ingerenze abitative dei Sabini dal Lazio, o degli stessi Dori, i Siracusani che fondarono Ancona (395 a.C.) nel tentativo proprio di rompere i fiorenti traffici tra Etruschi ed Ateniesi.
A dire il vero, la popolazione picena nostra antenata si chiuse a riccio rispetto ai tentativi di attraversamento degli Etruschi che avevano per primi scoperto le nostre vallate. Ubertose, apprezzandole. Al nord i Galli Senoni dovettero conquistare con la forza la Valle del Misa, Arcevia e il tratto costiero dove insediarsi e arrivando ad un’epoca contemporanea, con un bel salto storico nel tempo, a dire il vero Ancona e il Conero furono sempre oggetto di invasioni e occupazioni, di saccheggi e vessazioni.
Lo sviluppo di fortificazioni e di porti alla difesa del territorio e dell’abitato, dimostra sicuramente che l’indole dei marchigiani è resistente e caparbia, a differenza per esempio di una costa romagnola aperta ad ogni tipo di esperienza. Quella sì, appunto, “terra di passaggio”…
Le Marche, dunque, hanno sofferto per conservare una loro identità. Quale?
I Romani vi porteranno i Municipia, iniziando a dare vestigia di città ai primi borghi. E il valore di porto all’unica vera insenatura della costa, Ancona. Poi, l’invasione dei barbari rimescola le forze in campo, porta scontri fra Bizantini al nord e Longobardi al sud, creando divisioni e campanili. Nascono la marca di Camerino, poi la marca di Fermo.
Marca significa confine, spesso fortificato. Già dall’Ottocento queste “marche” interessano il potere temporale del Papa, che infatti le colonizza creando un potentato locale ed una nobiltà ecclesiale che durerà mille anni. Si sviluppa al contempo il monachesimo che fonda abbazie, vi porta un’architettura romanica e un’arte degna di nota, una prima organizzazione del territorio. A francescani, domenicani, agostiniani si affiancano mercanti, si creano i feudi, le Signorie e i primi liberi Comuni. Quando si inizia nel nuovo millennio a parlare italiano, le Marche diventano un crocevia di artisti, di attività, di stili. Federico da Montefeltro elegge, con il suo Palazzo Ducale, Urbino a regina delle corti marchigiane, dove Raffaello, Bramante, poi Gentile iniziano a caratterizzare una via marchigiana all’arte. Così pure gli studi generano brillanti letterati, geniali ed illustri scienziati, giureconsulti, genetisti: Annibal Caro, Benvenuto Stracca, Alberico Gentili, Nicola Strampelli…
Il fatto che siano state invase e contese dimostra già che queste sono terre di valore, ricche, fertili, in posizione baricentrica e perciò strategica rispetto alla penisola italiana.
Non è un caso che l’Imperatore Federico II nasce a Jesi, e chela campagna napoleonica per la conquista del Regno d’Italia si ferma ad Ancona, nello Stato pontificio. E che questa stessa città assuma l’importanza della capitale delle terre del Papa, fuori Roma.
E’ Napoleone che fonda le prime Camere di Commercio, nel 1811. Nell’epoca dei campanili e del leopardiano “natìo borgo selvaggio”, lo sviluppo dei primi moti di ribellione e dell’anticlericalismo, dalle insorgenze alla carboneria, porterà da una parte al crescere di istanze repubblicane, mazziniane, garibaldine prima ancora che socialiste e proletarie, dall’altra all’immobilismo delle campagne, prudenti e inerti per tutto il Risorgimento.
E’ Lorenzo Valerio che come commissario straordinario per il nuovo governo italiano, adotta un assetto nuovo, laico, moderno per le Marche. Fa arrivare la ferrovia, laicizza le scuole, espropria e ridistribuisce i beni della Chiesa, avvia il processo di sviluppo che porterà alla crescita di una nuova classe dirigente, l’alta e media borghesia…
L’agricoltura rimane indietro (cfr l’Inchiesta agraria Jacini), l’istruzione non decolla.
Angelo Celli porta in Parlamento una “questione marchigiana” che ci ingloba al Meridione, identità che le Marche faticano ancora oggi a scrollarsi di dosso.
Nell’Italia unita – dopo gli spartiacque delle battaglie di Castelfidardo e nell’ultima guerra,di Filottrano - la civiltà marchigiana si evolve dalla già consapevole realtà mezzadrile, che accanto alla proprietà condivide la gestione del fondo e la valorizza investendoci del proprio. Lentamente il modello rurale si trasforma in modello imprenditoriale.
Così la variegata connotazione orografica delle armoniose Marche e la pluralità dei campanili giovano a uno sviluppo fiorente della campagna attorno ai borghi che restano tali, mai modificandosi in realtà metropolitane.
Inoltre, favorendo la coesione sociale sull’indole diffusa del contado, le ideologie repubblicane provenienti da oltralpe al seguito dell’invasione napoleonica, attecchiscono a livello popolare con le loro propensioni moderate e liberali rispetto alle istanze socialiste, più presenti nelle Romagne.
Più tardi l’organizzazione del movimento cattolico rappresenta la finalizzazione della pesante eredità dello Stato Pontificio che supererà le arretratezze grazie alla mentalità e ai traffici mercantili lungo l’Adriatico, rimanendo invece tradizionalmente salda e gelosamente conservatrice della marchigianità nell’entroterra.
Qui i valori della ruralità si intrecciano con il talento dell’”intraprenditore” quel geniale e laborioso “metalmezzadro” che sviluppa nella cantina di casa la sua officina e realizza il sogno della manualità: diventare fabbrica di idee.
Qui ha origine la teoria economica del “Piccolo è bello” che, analizzata dal prof. Giorgio Fuà, è la base dello sviluppo della nostra piccola e media impresa.



LA TEORIA DELLO SVILUPPO NEC, OGGI

L’economista prof. Giorgio Fuà ha teorizzato già alla fine degli anni ’70, con intuizione basata sui dati e sulle situazioni rilevanti che sopra abbiamo provato a sintetizzare, un modello marchigiano di sviluppo sui generis inserendo a tutto titolo la nostra area e le sue peculiarità in quella geopolitica del modello NEC, ovvero dell’economia delle regioni d’Italia del Nord Est e del Centro, in cui “il processo dello sviluppo industriale deve molto ai suoi legami con l’agricoltura”. In sostanza, partendo dal ruolo prevalente delle piccole e medie imprese (pmi) a bassa intensità di capitale, queste sono per lo più collegate e organizzate in sistemi di filiera e in settori di distretto (secondo le semplici e vincenti analisi economiche marshalliane) poco propense a strutture aziendali complete ma inclini ad un verticismo padronale difficilmente trasferibile ad esempio a livelli manageriali, con forti interazioni e doppio filo con il mondo bancario. Deriva forse dall’altrettanto forte rapporto esistente fra questo sistema produttivo e l’intero ambiente sociale che lo caratterizza, l’impermeabilità dell’industria al Nuovo. Con conseguente incredibile sforzo e impegno, in tempi di globalizzazione, concorrenza e quindi crisi, di apertura, di internazionalizzazione, di innovazione.
Ora, tralasciando analisi economiche di tipo micro e il confronto con il macro, le varie ultime interpretazioni dei più idonei e possibili scenari per il migliore funzionamento del sistema industriale e – da ultimo – le sue potenzialità future che appaiono davvero appannate per quanto concerne le vie tradizionali di crescita, proviamo invece qui a ipotizzare un “canone inverso” per lo sviluppo.
Le Marche hanno una risorsa tutt’altro che nascosta, sotto gli occhi di tutti. Il talento dei marchigiani, la loro indole laboriosa, l’impegno nella manualità e nella piccola imprenditorialità che riesce a trovare spesso la più geniale delle soluzioni.
Tutto questo deve trasformarsi in PRODOTTO unico. Un’identità, tante singole peculiarità.
Si chiama brand questa tipologia di prodotto “multitasking” in grado di sintetizzare più risorse insieme, dando origine da diverse talentuosità, produzioni, tipicità, un solo prodotto finale, appunto. Tale prodotto di sintesi, dovrebbe portare con sé, rappresentare e quindi valorizzare la marchigianità tutta. Una vera esplosione promozionale che raccoglie dal territorio le qualità artigianali, manifatturiere, turistiche, economiche e innovative, tradizioni agricole e opportunità industriali insieme.
Si deve tornare ad un modello sano di sviluppo che trae radici dalla spontaneità dei mestieri, dall’indotto manuale, dalle ricchezze del territorio, naturali e paesaggistiche, dalla bellezza dei borghi e della vita in collina e in campagna. Più dalla terra che dal capannone industriale può allora scaturire una nuova, anzi “antica” opportunità di sviluppo. Riscoprire l’esistente, peculiare, caratteristica ricchezza che ci appartiene.
Non è forse un PRODOTTO, questo a tutti gli effetti?
E, possiamo esserne certi: sarà un PRODOTTO VINCENTE per attrattività.
Un prodotto-brand unico, ciò che le Marche hanno da sempre: artigianato, enogastronomia e tipicità del prodotto, il paesaggio.
Da questo punto di vista, ci sostengono le cronistorie narrate da Sanzio Blasi, i viaggi nelle Marche di letterati stranieri, i racconti e i diari di viaggio di scrittori e giornalisti come Renzo Paci, Franco Brinati o i saggi approfonditi e documentati di Sergio Anselmi.
Tutti hanno evidenziato che le Marche restano nel cuore perché sono una regione piena di talenti e di bellezze naturali, di manualità creativa e di piccole grandi meraviglie da scoprire.
Dunque soprattutto in un territorio come le Marche, vale una regola fondamentale. Ciò che viene realizzato in serie, ciò che è industriale, non regge più la concorrenza globale. Ciò che le Marche producono in piccolo, soltanto qui vale e vale di più. Ma è proprio qui che bisogna venire per capirlo, scoprirlo, apprezzarlo, eventualmente, anche, perché no, cercare di copiarlo… per chi di riesce. Ma non dobbiamo avere dubbi che solamente in questo territorio si concretizzano tutte le situazioni sopra dette che portano a tale successo e a tale qualità. A tale bellezza e valore.
Ecco che si crea allora un’attrattiva diversa che può costituire opportunità turistica. Riscoprire e valorizzare il “Piccolo è bello” significa rilanciare un’economia unica e irripetibile che scopriamo di avere “in casa”.



TANTI VALORI DA PROMUOVERE COME UNICO PRODOTTO

Oggi la riscoperta di tale originale valore è senza dubbio ricchezza da “visitare”, conoscere, rivivere. Diremmo anche “toccare con mano”.
Non approfondiremo in questa sede il modus operandi per addivenire a risultati conseguenti alle affermazioni di cui sopra, limitandoci a sottolineare che le ipotesi fatte possono essere supportate da dati di fatto e testimonianze di quanto le Marche hanno come patrimonio originale. Ci viene da dire: naturale.
Proviamo però a trovare motivazioni e indicare gli obiettivi.
Fondamentale motivazione che viene dallo stesso territorio: solamente valorizzando le proprie radici Le Marche possono sviluppare un’ulteriore grande opportunità per il futuro: diventare polo di attrazione nazionale ed internazionale per le ricchezze che ha saputo mantenere, produrre, e che deve oggi rilanciare.
Primo obiettivo: ripercorrere la storia delle origini contadine e mettere in rete la conoscenza dei fondamentali topos di riferimento che – fra manualità e intuizione, imprenditorialità e talento - faccia apprezzare la marchigianità come brand a valore aggiunto.
Di conseguenza, obiettivo finale superiore, fondamentale e prioritario: rilanciare il modello produttivo, così strettamente legato al territorio, come peculiare modello di efficienza, in grado – se riscoperto e valorizzato – di reggere al confronto del tempo al di là dei cicli e delle crisi industriali.
Il presente progetto si propone di ideare e identificare mediante una ricerca di base il filo conduttore della civiltà contadina marchigiana, quei tratti fondamentali della marchigianità che oggi possono assurgere a testimoni di una grande e variegata forza propulsiva in grado di produrre vitality, opportunità, attrazione.
A differenza di quanto accaduto in molte altre aree dove l’industrializzazione a tappe forzate ha provocato l’inurbamento della popolazione, l’impoverimento delle campagne e parimenti il sorgere di periferie e quartieri proletari costruiti in fretta da palazzinari senza scrupoli e case popolari di basso profilo, nelle Marche si è verificato un altro fenomeno.
Da una parte la fuoriuscita del contadino dal fondo avvenuta, grazie alla mezzadria, con disponibilità di mezzi finanziari, visibili talenti manuali, ingegno e volontà, abilità trasferibili dall’agricoltura a molti e diversi settori del lavoro, buona propensione ad apprendere, non ha creato ghetti di operai ma un “intraprenditore” come figura nuova, originale matrice di piccola e media impresa.
Dall’altra, però, la mancanza di strategie di crescita produttiva, di strutturazione aziendale e investimento di capitali e risorse per il futuro, insomma di capacità davvero “industriali” di strategia e lungimiranza, ne ha oggi determinato la crisi come modello.
Di qui la necessità di una riscoperta delle prime radici, quelle più sane.
Anche perché di alternative alla ripresa economica ne esistono poche. Il decollo industriale, sia nella fase protoindustriale postbellica, negli anni del boom della produzione ma anche dei consumi, sia del miracolo del “piccolo è bello” degli anni Settanta e Ottanta, non ha infatti nelle Marche determinato un cambiamento di mentalità produttiva.
Se la famiglia tiene coeso il sistema caratterizzando ogni cambiamento sociale, ne frena però la rapida evoluzione enfatizzando – nell’ex terra pontificia governata dalla Chiesa – gli elementi della persona, individuali, il fattore umano anche nelle vicende economiche. Così, abbiamo detto, la famiglia svolge un ruolo centrale nella trasformazione storica della società marchigiana fin dal riposizionamento cetuale. Non esiste infatti mai uno sviluppo lineare fra forza lavoro delle campagne e classe operaia. Parimenti mal corrisponde in ultima analisi il ruolo economico produttivo-politico del proprietario terriero di antico lignaggio al moderno titolare d’impresa, imprenditore piccolo borghese che ha la proprietà e il rischio dei mezzi di produzione. Ciò non crea nemmeno la frattura proletariato-padronato.
Insomma il modello marchigiano d’impresa è lontano da quello industriale in tutto.
Ecco dunque la via marchigiana all’industria.
Ma il processo industrializzante richiede sempre una lunga fase di rodaggio, durante il quale occorre studiare e analizzare il cambiamento: dall’apprendimento, sia professionale che di competenze, dall’avviamento al lavoro al trasferimento dei mestieri e della manualità, dei talenti del fare insomma, che sono i primi a perdersi nei passaggi generazionali. Alla socializzazione dei valori base, come la proprietà e l’idea; come la mentalità non rurale, la rifunzionalizzzazione e i ritmi familiari. La creazione di ambienti di supporto e sostegno all’industria come insediamento, dove le classi politiche, dirigenti, le amministrazioni locali, le infrastrutture materiali e immateriali, i servizi alla produzione, alla famiglia, alla mamma che lavora, siano predisposti e solleciti, in buona sostanza adeguati, alle esigenze dell’industria.
Ora, tale passaggio fra la civiltà contadina e quella industriale, in questa regione, è rimasto… nella terra di mezzo. Ma può tale fenomeno essere considerato solo in modo negativo, stante l’attuale crisi economica che si preannuncia irreversibile in quanto non congiunturale?
La ruralità, la manualità, la storia del lavoro contadino, dei suoi costumi, tradizioni e valori, sono da schedare, passare in rassegna, registrare, rilanciare come un tutto unico (il brand-prodotto) per produrre apprezzamenti e consensi, curiosità e visite.
Per fare questo, dopo la ricerca e il contatto, bisogna mettere insieme testimonianze documentali, siti, cataloghi e “cartoline” dei musei della civiltà rurale marchigiana aprendo e lanciando un unico portale di conoscenza e approfondimento come testimonianza di un valore quanto mai attuale che possa fungere da volano e modello di sviluppo ancora poco conosciuto quanto esportabile e funzionale.
Partire dalla rete di tutti i musei-testimonial della civiltà contadina è importante. La stessa civiltà che fa scuola per valori, opportunità, idee tramutate in opera. Ciò contribuirà a rilanciare il valore del territorio, la cui attrattività naturale, a questo punto, supererà di gran lunga la vocazione industriale.

Il riconoscere, promuovere, diffondere in ogni modo e per diversi media tale PRODOTTO deve portare a mettere in rete la cultura e le realtà esistenti come un tutto unico, valorizzando i materiali di comunicazione forniti e selezionati; fornendo poi alla fine uno strumento multimediale di consultazione capace di generare nuova attrattività e quindi stimolare Incoming di nuova natura.
Spingere alla conoscenza del modello agricolo-artigian-imprenditoriale marchigiano come modello vincente produttivo “complesso” significa riscoprire anche in chiave turistica e sotto un altro punto di vista l’eccellenza mai sfiorita del “piccolo è bello”.
Significa, in sintesi, scoprire e rilanciare per le Marche le sue radici nel futuro.


 

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